La nuova fabbrica, a giudicare dai resti archeologici emersi dagli scavi nella sacrestia, doveva prevedere originariamente un edificio in mattoni secondo le tecniche del gotico lombardo. Nel gennaio 1387 si gettarono le fondazioni dei piloni, opere colossali che erano state già progettate su disegno l’anno prima. Durante il 1387 si continuarono gli scavi delle fondazioni e si gettarono i piloni. Ciò che fu fatto prima del 1386 venne tutto disfatto o quasi. Nel corso dell’anno il Signore della città, Gian Galeazzo Visconti, assunse il controllo dei lavori, imponendo un progetto più ambizioso. Il materiale scelto per la nuova costruzione divenne allora il marmo di Candoglia e le forme architettoniche quelle del tardo gotico di ispirazione renano-boema. Il desiderio di Gian Galeazzo era infatti quello di dare alla città un grandioso edificio al passo con le più aggiornate tendenze europee, che simboleggiasse le ambizioni del suo Stato, che, nei suoi piani, sarebbe dovuto diventare il centro di una monarchia nazionale italiana come era successo in Francia e in Inghilterra, inserendosi così tra le grandi potenze del continente. Gian Galeazzo mise a disposizione le cave e accordò forti sovvenzioni ed esenzioni fiscali: ogni blocco destinato al Duomo era marchiato AUF (Ad usum Fabricae), e per questo sgravo da qualsiasi tributo di passaggio: da allora è rimasto il modo di dire “a ufo”, sinonimo di gratuito.
Come testimonia il ricco archivio conservatosi fino ai giorni nostri, il primo ingegnere capo fu Simone d’Orsenigo, affiancato da altri maestri lombardi, che nel 1388 iniziarono i muri perimetrali. Nel 1389-1390 il francese Nicolas de Bonaventure venne incaricato di disegnare i finestroni.
A dirigere il cantiere vennero chiamati architetti francesi e tedeschi, come Jean Mignot, Jacques Coene o Enrico di Gmünd, i quali però restavano in carica per pochissimo tempo, incontrando una scoperta ostilità da parte delle maestranze lombarde, abituate a una diversa pratica di lavoro. La fabbrica andò quindi avanti in un clima di tensione, con numerose revisioni, che nonostante tutto diedero origine a un’opera di inconfondibile originalità, sia nel panorama italiano che europeo.
Inizialmente le fondazioni erano state preparate per un edificio a tre navate, con cappelle laterali quadrate, i cui muri divisori potessero fare anche da contrafforti. Si decise poi di fare a meno delle cappelle, portando il numero delle navate a cinque e il 19 luglio 1391 venne deliberato l’ingrossamento dei quattro pilastri centrali. Nel settembre dello stesso anno venne interrogato il matematico piacentino Gabriele Stornaloco per definire l’alzato, che si presentava con due ipotesi: “ad triangulum” o “ad quadratum”. Il 1 maggio 1392 si scelse la forma delle navate progressivamente decrescenti per un’altezza massima di 76 braccia
La costruzione del corpo basilicale
Nel 1393 fu scolpito il primo capitello dei pilastri, su disegno di Giovannino de’ Grassi, il quale curò un nuovo disegno per i finestroni e fu ingegnere generale fino alla morte nel 1398. Gli successe nel 1400 Filippino degli Organi, che curò la realizzazione dei finestroni absidali. Dal 1407 al 1448 egli fu responsabile capo della costruzione, che portò a termine della parte absidale e il piedicroce, chiuso provvisoriamente dalla facciata ricomposta di Santa Maria Maggiore. Nel 1418 fu consacrato l’altare maggiore da papa Martino V.
Dal 1452 al 1481 fu a capo del cantiere Giovanni Solari, che per i primi due anni fu affiancato anche dal Filarete. Seguirono Guiniforte Solari, figlio di Giovanni, e Giovanni Antonio Amadeo, che con Gian Giacomo Dolcebuono costruì il tiburio nel 1490. Alla morte dell’Amadeo (1522) i successivi maestri fecero varie proposte “gotiche”, tra le quali quella di Vincenzo Seregni di affiancare la facciata da due torri (1537 circa), non realizzata.
Nel 1567 l’arcivescovo Carlo Borromeo impose una ripresa solerte dei lavori, mettendo a capo della Fabbrica Pellegrino Tibaldi, che ridisegnò il presbiterio, che venne solennemente riconsacrato nel 1577 anche se la chiesa non era ancora terminata
La questione della facciata
Per quanto riguarda la facciata il Tibaldi disegnò un progetto nel 1580, basato su un basamento a due piani animato da colonne corinzie giganti e con un’edicola in corrispondenza della navata centrale, affiancata da obelischi. La morte di Carlo Borromeo nel 1584 significò l’allontanamento del suo protetto che lasciò la città, mentre il cantiere veniva preso in mano dal suo rivale Martino Bassi, che inviò a Gregorio XIV, papa milanese, un nuovo progetto di facciata[3].
Nel XVII secolo la direzione dei lavori vide la presenza dei migliori architetti cittadini, quali Lelio Buzzi, Francesco Maria Ricchino (fino al 1638), Carlo Buzzi (fino al 1658) e i Quadrio. Nel frattempo nel 1628 era stato fatto il portale centrale e nel 1638 i lavori della facciata andavano avanti, con l’obiettivo di creare un effetto a edicole ispirato a Santa Susanna di Roma. A tal fine pervennero nel XVIII secolo i disegni di Luigi Vanvitelli (1745) e Bernardo Vittone (1746).
Tra il 1765 e il 1769 Francesco Croce completò il coronamento del tiburio e la guglia maggiore, sulla quale fu innalzata cinque anni dopo la Madunina di rame dorato[7], destinata a diventare il simbolo della città. Lo schema della facciata di Buzzi venne ripreso a fine secolo da Luigi Cagnola, Carlo Felice Soave[8] e Leopoldo Pollack. Quest’ultimo diede inizio alla costruzione del balcone e della finestra centrale.
Nel 1805, su istanza diretta di Napoleone, Giuseppe Zanoia avviò i lavori per il completamento della facciata, in previsione dell’incoronazione a re d’Italia. Il progetto venne finalmente concluso nel 1813 da Carlo Amati. Tra gli scultori che vi lavorarono nei primi anni dell’Ottocento, si può ricordare Luigi Acquisti.
Manutenzione e restauri
Nel 1858 venne demolito il campanile che si trovava sulla navata, e le campane vennero trasferite nel tiburio, tra le doppie volte. Per tutto il XIX secolo furono completate le guglie e le decorazioni architettoniche, fino al 1892[3]. Per tutto il secolo si susseguirono inoltre lavori di restauro, volti a sostituire i materiali danneggiati dal tempo.
Nel corso della seconda guerra mondiale la Madonnina venne coperta da stracci, onde evitare che i riflessi di luce sulla sua superficie dorata da poco rifatta potessero venire usati come punto di riferimento per i bombardieri alleati in volo sulla città, mentre le vetrate furono preventivamente rimosse e sostituite da rotoli di tela. Pur non essendo stato centrato da bombe ad elevato potenziale, anche il duomo venne danneggiato durante i bombardamenti aerei ed il suo portone centrale bronzeo mostra ancor oggi alcune “ferite” da parte di spezzoni di bombe esplose nelle vicinanze. Nel secondo dopoguerra, a seguito dei danni subiti dai bombardamenti aerei, il Duomo fu restaurato in gran parte, successivamente le restanti porte di legno furono sostituite con altre di bronzo, opera degli scultori Arrigo Minerbi, Giannino Castiglioni e Luciano Minguzzi.
Negli anni ’60 del Novecento l’inquinamento atmosferico, l’abbassamento della falda freatica e le vibrazioni del traffico e della vicina linea della metropolitana, unite al degrado naturale dei materiali e ad alcuni errori originali nella costruzione, portarono a una grave situazione di rischio, che minò seriamente la stabilità dei quattro piloni che reggono il tiburio e rese necessari, nel 1969, la chiusura della piazza al traffico e il rallentamento dei treni della linea 1. Il restauro statico dei piloni iniziò nel 1981 e venne concluso nel 1986 in occasione del seicentenario della costruzione.
Ancor oggi la manutenzione della cattedrale è affidata alla Veneranda fabbrica del Duomo i cui interventi sono continui tanto da far nascere l’espressione milanese Longh comm la fabbrica del Domm, per intendere qualcosa di interminabile